La violenza di genere online riflette la cultura maschilista: “Principali vittime le giovani donne” | SPECIALE 25 NOVEMBRE
In questi ultimi giorni molto spazio è stato dedicato alla violenza sulle donne. Il 25 novembre si celebrava infatti la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, occasione per prendere una posizione netta contro il sistema che favorisce i molti casi di violenza, e occasione anche per aprire a scenari futuri, e interrogarsi sul da farsi per istruire diversamente le generazioni future. Quando si parla di violenza però, è bene tenere a mente che questa non è solo fisica e visibile: ci sono diverse forme, anche più subdole, e spesso è difficile attribuire a queste forme di violenza lo stesso peso di quella più “visibile”. Sicuramente un argomento ancora poco affrontato riguarda la violenza che si riversa online, sulle varie piattaforme utilizzate da adolescenti e ragazzi. In occasione quindi del 25 novembre, abbiamo deciso di dedicare il giusto spazio alla violenza di genere online, che colpisce principalmente le giovani donne e ragazze.
Per affrontare approfonditamente il tema abbiamo posto qualche domanda al Professor Fausto Pagnotta, Dottore di ricerca in Studi Politici e collaboratore dell’Università di Parma dove insegna Sociologia delle disuguaglianze di genere e Sociologia della comunicazione e dei nuovi media. Parte del suo impegno di ricerca è dedicato ad alcune delle maggiori problematiche etiche, politiche e sociali del rapporto tra esseri umani e media digitali. In questa sede in particolare abbiamo affrontato la violenza di genere, le sue forme, le piattaforme più comuni in cui essa viene esercitata, e soprattutto i motivi che la generano: la radice, ovviamente, è nel sistema culturale in cui essa è esercitata, e per sradicarla dovremmo partire da una rifondazione di alcuni insegnamenti scolastici, già dalle elementari.
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Gentile Professor Pagnotta, per iniziare ci può dare una definizione di “violenza di genere”?
Per rispondere a questa domanda mi riferirei in particolare a due documenti molto importanti. Il primo è la dichiarazione adottata senza voto dall’Assemblea delle Nazioni Unite, ovvero la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, firmata nel 1993. È qui che si trova la prima definizione, ripresa poi anche da altri documenti internazionali: “[…] la violenza contro le donne costituisce una violazione dei diritti e delle libertà fondamentali delle donne e danneggia ed annulla il godimento da parte loro di quei diritti e libertà”.
In seguito abbiamo avuto nel 2011 la Convenzione di Istanbul, primo vero e proprio strumento giuridico che definisse la violenza contro le donne, che viene considerata qui come una violazione dei diritti umani. In questo modo questo tipo di violenza viene considerata non come un fatto privato, ma come un oltraggio ai diritti fondamentali dell’uomo. Questa forma di discriminazione contro le donne inoltre comprende tutti gli atti di violenza fondati sul genere “che provocano o sono suscettibili di provare danni o sofferenze di natura fisica, sessuale, psicologia o economica”. Ad essere comprese sono anche le minacce, la coercizione e la privazione della libertà.
Quali sono le piattaforme in cui si riversa la violenza di genere online?
Potenzialmente tutte le piattaforme possono essere utilizzate come spazi di violenza contro le donne. In particolare le piattaforme social o le app più pericolose sono quelle che garantiscono l’anonimato. Oltre al più noto Telegram, ce ne sono di innumerevoli e funzionano tramite la comunicazione con perfetti sconosciuti. Un esempio molto in voga è l’app di messaggistica gratuita Kik: qui non ci sono limiti di carattere e di messaggi. I minori possono registrarsi e mandare qualsiasi tipo di messaggio e nel 2018 la BBC ha segnalato che Kik Messanger compariva in 1100 casi di abuso su minori solo nel Regno Unito.
Un altro esempio è il sito Omegle, che permette di aprire chat gratuite in cui si può parlare con altri utenti senza registrarsi. Lo slogan del sito è “Talk with strangers” e le chat sono assolutamente anonime, tanto che la conversazione è tra un generico “You” e un altrettanto generico “Stranger”. Questo sito è diventato particolarmente popolare durante la pandemia, ma la cosa più inquietante è che l’app dichiara in modo molto chiaro i pericoli del sito. Infatti viene scritto che è noto l’uso di Omegle da parte di “predatori”, e che si corre quindi il rischio di chattare con queste persone.
In particolare comunque, ogni piattaforma che garantisce l’anonimato sfugge al controllo. Facebook e Tik Tok hanno iniziato a introdurre maggiori garanzie rispetto a chi si registra, ma anche in questo caso sappiamo che ci sono minori che accedono inserendo un’età falsa.
In quali tipologie si può distinguere la violenza di genere online?
La violenza di genere online può avere diverse tipologie: insulti, molestie, ricatti, attacchi alla web reputation (la reputazione rispetto ai materiali sulla rete che riguardano la nostra figura o identità), cyber stalking (persecuzione attraverso i social), revenge porn (diffusione non consensuale di materiale sessualmente esplicito), cyber bulling. Queste sono le forme più comuni della violenza contro le donne online, e rientrano nella definizione europea di Cyber Vawg (Cyber Violence Against Women and Girls), sigla utilizzata nel report dell’EIGE, l’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere. La stessa Unione Europa ha anche dichiarato che il 4% della sua popolazione, pari a 1,5 milioni di persone, è stato vittima di uno dei comportamenti persecutori nella fascia d’età tra i 18 e i 29 anni. I dati dicono inoltre che le donne corrono il rischio di essere molestate 27 volte più dei maschi, e infatti come ha evidenziato un documento dell’Onu la violenza di genere online e quella offline si alimentano a vicenda.
Quali ripercussioni può avere nella sua vita una donna vittima di violenza sulle piattaforme online?
Bisogna tenere a mente che oggi non possiamo più parlare di virtualità e realtà come due cose separate. Mi rifaccio in particolare alla definizione del filosofo Luciano Floridi, che definisce la nostra condizione esistenziale “on-life“, una situazione che indica che le nostre vite sono interconnesse con la dimensione digitale anche quando non siamo allo smartphone. È un errore infatti, come pensano alcuni genitori, che online e offline siano dimensioni opposte: c’è piuttosto una continuità e la violenza che si genera online ha fortissime ripercussioni, da non sminuire.
Come ha denunciato un report di Amnesty International nel 2017, le conseguenze di chi subisce violenza online sono gravissime. In particolare la maggior parte delle donne che ha ricevuto molestie online riduce l’utilizzo dei social media e della rete. Il report rivela soprattutto che nel 61% dei casi di violenza contro le donne online le vittime hanno perso fiducia e autostima in loro stesse, vivendo ansia e attacchi di panico. Il 41% di loro ha temuto per la propria sicurezza e ha avuto conseguenze sui rapporti della sfera familiare, affettiva, in ambito privato e pubblico. Le ripercussioni si hanno anche sul percorso di studio e nei contesti di lavoro. In generale ad essere minata è la possibilità di empowerment delle donne.
Subire una violenza online è totalmente invalidante per il soggetto colpito e a livello globale sono molti anche i casi di suicidio riconducibili a casi di violenza di genere online. In Italia ricordiamo la vicenda di Tiziana Cantone, 33enne, ma ci sono ragazze anche di 15 o 13 anni.
Come si può fare prevenzione a riguardo? È possibile evitare certi comportamenti?
Il discorso anche in questo caso è molto ampio. Non esiste una pillola che fa passare la violenza. Il problema riguarda la responsabilità che dovrebbe entrare nelle coscienze di tutti. Il problema ovviamente è sociale e ha costi altissimi.
Dal mio punto di vista ci sono tre diversi piani di intervento nello specifico. Il primo riguarda la sensibilizzazione, che è la parte più importante. Si prevengono questi comportamenti con la prevenzione, l’approfondimento, le continue campagne su questi temi, la promozione di certi comportamenti nella società. È per questo infatti che il problema, ci tengo a ripeterlo, non è il web, ma la cultura. Il secondo aspetto importante riguarda la presenza di garanzie a livello istituzionale, dalla scuola all’università. Anche il Miur stesso deve farsi garante di nuovi messaggi e deve divulgarli a partire dai più piccoli. L’ultimo passo è quello normativo: ci devono essere sanzioni adeguate per i colpevoli.
A che punto siamo quindi con una legislazione che sanziona i colpevoli per azioni illecite svolte online?
Molti reati che vengono svolti online sono ricoperti dalla legislazione penale, quindi atti persecutori, stalking, fenomeni di cyber bullismo o di violenza rientrano sotto il Codice penale, ma il legislatore si sta muovendo con leggi ad hoc per l’online.
La legge 71 del 29 maggio 2017 intanto ha dato una disposizione a tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del cyber bullismo. Si è arrivati a questa legge non solo per sanzionare i diretti interessati, ma per prevenire i danni derivanti dalle denigrazioni sperimentate attraverso il web. Il problema delle norme però è stato toccato tardi. Se pensiamo infatti che la prima definizione di “cyber bullismo” risale al 2003, quando il canadese Bill Bellsey dette una prima spiegazione, abbiamo un vuoto legislativo di molti anni prima che si arrivi al 2017.
Un altro elemento a favore delle vittime dei reati propinati attraverso tecnologie online è la legge 69 del 19 luglio 2019. La definizione esatta reca “modifiche al Codice penale, Codice di procedura penale, e altre disposizione in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, comunemente è conosciuta come Codice Rosso. Nell’articolo 10 che introduce la nuova fattispecie di reato rubricato all’art. 612ter del Codice Penale viene sanzionato il reato di coloro che avendo realizzato o sottratto immagini o video sessualmente espliciti li diffonde, cede o pubblica senza il consenso delle persone rappresentate. In questo caso l’autore viene punito con la reclusione da uno a sei anni, con una multa da 5 mila a 15 mila euro. Il comma 1 del citato articolo del Codice Rosso inoltre estende la stessa identica pena anche a chi avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video sessualmente espliciti li invia, consegna, cede, diffonde, senza il consenso delle persone rappresentate, al fine di recare loro nocumento, ovvero danneggiarle, schernirle e denigrarle. Questo significa che se in una chat di gruppo arriva una foto o un video che rappresenta una persona in atteggiamenti sessualmente espliciti, se condivido la foto con altre persone, commetto un reato.
Gli ambienti digitali riflettono le relazioni di potere esistenti in una certa cultura e in un determinato ambiente sociale. Si può quindi senza remore affermare che il problema sta a monte, nel sistema androcentrico in cui tali relazioni hanno luogo?
Assolutamente sì. Discriminazioni, abusi, oggettivazione del corpo femminile, violenza contro le donne, sono elementi che permeano in modo trasversale la società a livello globale. Sono espressioni di una parte della cultura che inevitabilmente vanno ad abitare la rete, con le stesse modalità violente o discriminatorie con cui le donne vengono rappresentate nella cultura. La prima rivoluzione necessaria è quella culturale.
Non possiamo nascondere che oggi nella rete c’è un’invasione di contenuti sessualmente espliciti dove purtroppo il corpo della donna subisce molteplici modalità di oggettivazione, svilimento e denigrazione. Certi contenuti di pornografia violenta sono un pericolo per la creazione di relazioni corrette ed equilibrate con l’altro sesso. In rete quindi circolano contenuti devianti e e la dimensione dell’eros è cambiata con la rete: non ci sono limiti, e spesso la lettura della sessualità avviene in termini abusanti nei confronti della donna.
L’accesso alla rete di giovani appartenenti a fasce d’età sempre più basse può esporre queste persone a rischi di cui non sono completamente consapevoli. Che cosa dovrebbe fare il sistema scolastico a livello educativo?
Purtroppo viviamo in una situazione di vuoto educativo. Ci sono alcune iniziative scolastiche a livello ministeriale, in collaborazione con la polizia postale, per creare consapevolezza sui pericoli della rete. Bisognerebbe però promuovere una nuova materia, “Educazione digitale”, con un docente che abbia competenze trasversali: non solo in ambito tecnico e informatico, ma anche psicologico, pedagogico, il tutto declinato allo spazio digitale.
Il lato sessuale e quello sentimentale necessitano poi una particolare educazione. Sono elementi fondamentali dello sviluppo e della crescita di un individuo e non dovrebbero esserci delle oasi in cui un determinato dirigente scolastico organizza alcune iniziative. Occorrerebbero percorsi formativi universitari per la creazione di una nuova figura, l’educatore digitale, che riesca a trattare trasversalmente la materia.
L’educazione digitale deve certo essere rivolta alle donne per far loro capire i possibili rischi della Rete ma deve essere soprattutto indirizzata agli uomini che risultano i principali autori della violenza contro le donne online. È dal mondo maschile che deve esserci una nuova assunzione di responsabilità. Il problema della violenza di genere non può essere rilegato al ruolo della vittima: l’intera società deve farsene carico e la scuola, fin dalle elementari, deve essere lo spazio per muoversi verso un’idonea educazione.
È possibile invece che in famiglia – con genitori di altre generazioni e quindi aiutare i figli e le figlie ad acquisire una nuova responsabilità sulle tecnologie digitali e una consapevolezza dei rischi a cui vanno incontro?
Il ruolo dei genitori è sempre più centrale, ma il divario generazionale è molto grande. Insieme ai percorsi che scuola e società dovrebbero organizzare, ci dovrebbero essere corsi di formazione anche per gli adulti. Se facciamo finta di niente la nostra società diventa una società che non affronta il problema, e sarà sempre peggio. Ho avuto la possibilità durante la mia formazione di lavorare con psicologi, vittime adolescenti e pre-adolescenti: i danni sono molto gravi e una società responsabile non se lo può permettere.
Spesso di discute di creare piattaforme social destinate esclusivamente a ragazze e ragazzi inferiori a una certa età, come Tik Tok per bambini, che li protegga dai pericoli che potrebbero incontrare. Secondo lei è efficace una soluzione del genere?
Ben venga ogni soluzione che possa limitare l’accesso ai minori di 13 anni a piattaforme che possono essere veicolo di violenza. Il problema però è che nessun strumento tecnico può sostituire un rapporto di fiducia costruito e sviluppato con le figure di riferimento. La soluzione che serve è quella relazionale ed educativa. La dimensione deve essere di scambio reciproco tra adulti e bambini, e non di tipo verticale. Bisogna renderci conto che spesso i minori sono più competenti degli adulti su alcune piattaforme online e l’adulto per capirli deve aprirsi in modo non giudicante su queste tematiche, senza alcun tabù.
Buona parte dei genitori invece facilita l’accesso dei propri figli alle tecnologie digitali sempre più in tenera età, spesso con regole assenti e poco definite. In questo modo la tecnologia diventa un “babysitter” che si occupa del bambino e deresponsabilizza il genitore. La parola chiave è condivisione: l’esperienza educativa deve fungere da filtro molto più di un limite di accesso dettato dalle piattaforme online.
Come possono però le piattaforme social diventare veicoli di nuovi messaggi? Possono aiutare all’educazione di una società?
Certo. Non dobbiamo delegittimare la rete quando evidenziamo i suoi problemi. La rete stessa può rappresentare uno spazio libero per lo sviluppo della consapevolezza. Questo è molto importante: pensiamo che nei paesi totalitari la rete viene limitata. In questi paesi le donne subiscono abusi, vengono delegittimate, e la rete viene controllata, perché è uno spazio democratico e di comunicazione.
Il 25 novembre è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Profili social di quotidiani, aziende, professionisti spesso dedicano spazio al tema. Queste campagne sono utili? Si corre il rischio di azioni di facciata?
Sì, ci può essere il rischio di azioni che durano un giorno solo, il 25 novembre. Ma di questi temi è sempre meglio parlare e avere occasioni per abbattere quella che è la causa principale della violenza: il muro del silenzio e dell’omertà.