Dentro l’universo dell’Autismo: la vita dei ragazzi di Parma dopo un anno di pandemia

di Andrea Adorni e Greta Magazzini

C’è una sorta di realtà parallela all’umanità, senza scomodare teorie fantascientifiche o ambiti della fisica ancora poco esplorati, che fa già parte della nostra vita reale. Si tratta di un universo che coinvolge l’1% della popolazione, che tuttavia comprende le 5 milioni di persone in Europa – circa 500mila solo in Italia – con una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico, ma anche le relative famiglie. L’autismo è una condizione complessa che impatta sulle doti comunicative e sulle abilità sociali, soprattutto dei più piccoli, perché caratterizzato prevalentemente da comportamenti che senza soluzione di continuità oscillano tra normalità e malattia. In altre parole, chi è affetto da tale disturbo, presenta per quantità e per frequenza sintomi che non gli consentono di adattarsi al contesto, di sviluppare le risorse cognitive normo tipiche, di acquisire e mantenere sempre relazioni sociali.

Quando si parla di Spettro dell’Autismo bisogna tener presente che gli individui autistici possono manifestare vari gradi del disturbo, i quali si intersecano con le caratteristiche individuali della persona. Questo disturbo del neurosviluppo, termine più ampio sotto il quale sono compresi anche altre forme di disabilità e disturbi della comunicazione, dell’attenzione o dell’apprendimento, emerge nel primo periodo della vita del bambino e richiede un’assistenza continua da parte di specialisti. L’esordio in età infantile di questi disturbi compromette i funzionamenti sia dal punto di vista personale, che sociale, scolastico e anche lavorativo. All’interno di questo universo molto eterogeneo e diversificato, quindi, il mondo percepito è sicuramente differente rispetto a quello della maggioranza degli abitanti del pianeta: l’integrazione fra comunicazione verbale e non verbale, ad esempio, è totalmente decostruita a favore di comportamenti ripetitivi ed una routine poco funzionale all’interazione sociale.

L’idea di considerarlo una sorta di universo parallelo – almeno a livello di percezione della realtà – nasce anche in virtù del fatto che non esiste una cura per il disturbo, ma solo attività in grado di migliorarne l’andamento. Fortunatamente, però, se in alcuni casi non è possibile entrare mentalmente in contatto con l’estrema varietà di persone coinvolte nello spettro autistico, possiamo farlo fisicamente per garantire a questi bambini, ragazzi e adulti delle attività terapeutiche in grado di arricchire la loro interazione sociale, incrementare la comunicazione, rendere più flessibili e meno rigidi i loro schemi d’azione. In questo contesto la pandemia ha giocato il ruolo del guastatore. L’isolamento del primo lockdown, le restrizioni, le rigide normative per garantire, giustamente, la sicurezza della popolazione, e la ridefinizione degli interventi di cura della sanità pubblica per chi soffre del disturbo, tuttavia, hanno comportato in alcuni casi delle forme regressive, annullando anni o mesi di progressi. Nelle forme più gravi il disturbo dello spettro autistico rende estremamente limitate la comunicazione tra il soggetto in questione, i famigliari e/o il professionista che lo assiste: capire l’esigenza o il disagio che di volta in volta vengono espressi non è così immediato. Per questo mantenere una relazione costante di cura e contatto è fondamentale.

Essere privati del contatto fisico, quindi del loro canale comunicativo fondamentale, delle terapie, o anche solo della propria routine, ha costituito un fattore di stress notevole sia per i pazienti sia per le famiglie, che hanno visto il carico di lavoro assistenziale aumentare a dismisura. Per approfondire tali tematiche, abbiamo quindi fatto riferimento alla Dott.ssa Marta Godio, dirigente del Servizio di Psicologia Clinica Infanzia e Adolescenza dell’Azienda Usl di Parma e al presidente dell’Associazione Nazionale Genitori perSone con Autismo di Parma, Corrado Ilariuzzi.

La quarantena, il rientro e i cambiamenti di colore delle regioni: disagi e dolori dei ragazzi con autismo durante la pandemia

La Dottoressa Godio, esperta dei disturbi dello Spettro dell’Autismo, risponde alle nostre domande argomentando ampiamente i cambiamenti che hanno interessato i bambini durante questi mesi. Questo periodo lungo più di un anno ha visto infatti l’interruzione e poi la ripresa graduale delle attività che per i ragazzi autistici sono fondamentali tanto per la loro crescita quanto per il raggiungimento della condizione di autonomia. In particolare, spiega la Dottoressa, i bambini dello spettro con disabilità intellettiva hanno maggiormente provato disagio durante la pandemia da Coronavirus, anche se per loro è stato complicato se non impossibile esprimersi verbalmente per lamentare il dolore che stavano provando. La destabilizzazione dei ritmi quotidiani infatti, ha impattato enormemente sulle giornate di questi ragazzi, anche se, come spiega la psicologa, ci sono state principalmente due fasi dall’inizio della pandemia ad adesso.

La pima fase, ovvero nel lockdown di marzo 2020, bambini e ragazzi hanno dovuto fare i conti con una nuova realtà, e rivedere tutto ciò che ha a che fare con le loro abitudini, i loro tempi e i loro spazi di vita”, spiegano sia la dottoressa Godio sia Ilariuzzi, presidente di Angsa Parma. In questa fase si sono manifestate le criticità più elevate: era difficile anche poter uscire di casa, i luoghi in cui potevano socializzare erano chiusi, e ancora non si sapeva quando sarebbe finito. La seconda fase invece è stata quella del ri-adattamento. “I nostri ragazzi hanno dovuto fare i conti con l’utilizzo dei dispositivi di sicurezza, con il rispetto delle regole, il distanziamento, il non toccarsi… – continua la Dottoressa – anche se le persone con disabilità non hanno l’obbligo di utilizzare la mascherina, noi abbiamo lavorato molto affinché potessero imparare a tenerla. Non con tutti ci siamo riusciti, ma con alcuni e talvolta per un tempo ridotto siamo riusciti a farlo”.

Tuttavia, quando a fine maggio dello scorso anno, i ragazzi sono potuti ritornare in presenza negli ambulatori, hanno trovato di fronte a loro delle persone “travestite” e quasi irriconoscibili. “Ci avevano salutato il 4 di marzo quando indossavamo appena una mascherina – racconta l’esperta del disturbo -, ci hanno rivisto dopo mesi completamente mascherati, con visiera e dispositivi che coprivano tutto il camice”. Anche se per loro è stato difficile tornare a vedere queste persone a prima vista molto diverse da come le avevano lasciate, “si sono abituati subito, non hanno reagito male e non si sono spaventati”, prosegue, per poi affermare: “Non c’è stato nessun comportamento eclatante al rientro in presenza; solo un momento di riassestamento per tutti, ma poi si è continuato a lavorare come prima”.

Più critico invece, è stato l’aspetto del cambiamento di colore delle regioni a partire dall’autunno. I ragazzi autistici o con altre disabilità, per esempio, hanno frequentato spesso la scuola in presenza ma senza i compagni di classe, rimasti in DaD a causa delle disposizioni della zona rossa o arancione. Questo in un certo senso ha contribuito a separare i ragazzi dagli amici, come se il loro universo vasto ed eterogeno fosse davvero lontano dal pianeta degli altri ragazzi. “Alcuni bambini – spiega Marta Godio – non capivano dove fossero finiti i compagni, perché fossero da soli in classe e hanno iniziato sempre di più a porsi delle domande”. Tuttavia, la nota positiva è insindacabile. I ragazzi hanno potuto infatti riprendere alcune delle loro attività, lavorando anche in mini gruppi da pochi individui. Se quindi in una prima fase l’esperienza della DAD è stata “molto difficile, soprattutto per chi ha difficoltà dal punto di vista sensoriale e della tenuta dell’attenzione”; in questa seconda fase la possibilità di frequentare la scuola è stata positiva ed “ha avuto una ricaduta positiva anche sulle famiglie”.

“Mamma quando finisce questo Covid? Io devo andare in piscina”. Il ruolo delle famiglie e il continuo contatto con gli ambulatori degli psicologi

I genitori e i familiari dei ragazzi autistici hanno dovuto affrontare periodi molto difficili durante i primi mesi di quarantena. La Dottoressa Godio riferisce che l’Ausl ha cercato di “accompagnare le famiglie nell’organizzazione della giornata, per cercare di far mantenere ai ragazzi la loro routine e i loro tempi della giornata, dalla colazione alle attività pomeridiane da svolgere in casa”. Gli psicologi hanno infatti fornito alle famiglie del materiale di supporto, prestando attenzione alle variabilità dei bambini e alle loro singole difficoltà. Le famiglie in questo periodo hanno quindi potuto lavorare sull’autonomia del bambino, ma il supporto degli psicologi è stato fondamentale e non meno complicato: “Anche noi abbiamo dovuto reinventare il nostro modo di lavorare – racconta la Dottoressa -; il nostro lavoro si fonda su una cosa basilare e semplice: la relazione. Il periodo di primavera del 2020 è stato nuovo anche per noi e abbiamo cercato di trasmutare la relazione con altri mezzi e con supporti telematici”.

Il lavoro tratta quindi un intervento psico-educativo a matrice cognitivo-comportamentale, che deve essere esteso a tutti gli ambienti di vita del bambino. “Sicuramente c’è un rapporto costante di condivisione con le famiglie. Rispetto agli obiettivi da raggiungere e alle strategie per farlo c’è un lavoro di supporto concitato laddove ci sono momenti di criticità. In questo periodo ci siamo resi conto ancora di più di quanto sia importante la funzione di mediazione della famiglia: nel lockdown, senza la mediazione della famiglia, non saremmo riusciti a fare nulla, i bambini avevano molto bisogno della presenza dei genitori”. La pandemia ha quindi ribadito quanto sia importante coinvolgere i genitori, da un lato a comprendere come interagire con i bambini, dall’altro per trovare delle strategie nel momento in cui l’ambulatorio non si può frequentare.

Sono stati infatti i genitori a dover convivere con i figli autistici h24, e hanno dovuto gestire i comportamenti e le richieste dei bambini. “Andare al parco, ai gonfiabili, a saltare sulle reti in Cittadella… tutte le cose, anche le più minime e date per scontate, sono costate care a questi ragazzi”, spiega la psicologa. “Una mamma, ad esempio, mi ha detto che suo figlio le ha chiesto: ‘Mamma ma quando finisce questo Covid? Io devo andare in piscina’. Spiegare ai figli che tutte le attività sportive sono bloccate è stato difficile per i genitori, e la comunicazione con l’ambulatorio è stata continua”. Marta Godio confessa inoltre che ci sono stati dei casi in cui è stato chiesto un intervento puntuale per gestire i comportamenti problematici dei ragazzi: “In questo periodo si sono manifestati comportamenti problematici di aggressività etero- o auto-diretta e siamo dovuti intervenire con l’analisi minuziosa della funzione di quegli atteggiamenti o con l’eventuale modifica dei trattamenti farmacologici”.

L’altra faccia della medaglia: famiglie sotto stress nel primo lockdown e trattamenti al 50% dopo la ripresa

Se da una parte, quindi, è stato mantenuto il contatto con i giovani pazienti, dall’altra c’è l’incessante lavoro di cura domiciliare che i genitori hanno sostenuto. Un impegno a cui le famiglie hanno dovuto far fronte, ma che a lungo andare – soprattutto nel lockdown generale di un anno fa -, si è rivelato estenuante. “La situazione che si è venuta a creare con i Centri per i trattamenti chiusi e le scuole chiuse ha comportato che le persone con autismo vedessero sconvolte le loro routine e questo ha generato scompenso nella loro mente – ammette Corrado Ilariuzzi dell’ANGSA di Parma –. Anche il fatto di non poter uscire per una passeggiata, che a volte è funzionale per far calmare chi è affetto da autismo, è stato un problema. L’impegno dei genitori è stato davvero forte per fornire supporto per la didattica a distanza e per trovare attività piacevoli e utili ai propri figli”.

Lo spettro dell’autismo è veramente ampio e nelle forme più gravi, in cui il soggetto non riesce a comunicare verbalmente, si ha difficoltà a capire di cosa abbia veramente bisogno. “In tanti casi queste persone sono soggette a crisi con comportamenti problema perché non riescono a comunicare una loro richiesta o un loro malessere. Per esempio nel caso abbiano un malessere fisico, essi possono non essere in grado di comunicarlo”, fa sapere il Presidente di Angsa Parma.

Le cure di cui necessitano bambini con autismo dovrebbero essere intensive nei primi anni di vita: i trattamenti abilitativi servono per provare ad insegnare loro quello che i bambini normotipici imparano senza nessuna difficoltà. Tutti questi trattamenti – erogati dall’Azienda Sanitaria Locale – purtroppo durante la primavera del 2020 sono stati tutti bloccati, compresi quelli dei centri convenzionati come il Kirikù di Salsomaggiore o il Centro Fondazione Bambini e Autismo di Fidenza o il nuovo Spazio Akela di Parma. “Ad oggi le regole sanitarie prevedono che l’attività non si possa ancora svolgere come prima della pandemia – afferma Ilariuzzi -. Ad esempio, il numero di ore previsto dal piano regionale per i bambini nella fascia da zero a sei anni è pari a quattro, mentre adesso ne fanno la metà”.

L’associazione Angsa Parma è costituita attualmente da 33 soci, genitori o famigliari di 33 bambini o adulti che sono affetti dal disturbo dell’autismo. Nel periodo della pandemia l’Associazione ha fornito un supporto informativo per poter conoscere le leggi e i provvedimenti emanati a livello nazionale o locale. Le necessità maggiori esplicitate dai genitori sono quelle di poter avere maggiore supporto da parte dell’Asl per la gestione dei propri figli per avere momenti di sollievo dall’incessante lavoro di assistenza che dovevano rivolgere ai loro figli.

Situazione di prossima risoluzione, come anticipa Ilariuzzi: “La richiesta d’interventi che possano dare sollievo ai caregiver dovrebbe essere soddisfatta, almeno parzialmente con le misure previste a sostegno dei caregivers, finanziate dalla Regione Emilia Romagna. All’interno di tali interventi, gestiti da Asl e Comune di Parma, sono previsti laboratori educativi di socializzazione ed autonomie con 3-4 ragazzi, realizzati in contesti della comunità con educatori professionali, nelle giornate di sabato, per una durata di 4-6 ore per un numero massimo di 8 giornate”.

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